Lo stilista visionario, eccentrico e colto

Matteo Sorbellini è uno dei creativi più originali del panorama italiano contemporaneo. Nato tra stoffe e cartamodelli nella sartoria di famiglia a Novara e cresciuto professionalmente nella vibrante scena culturale londinese, attualmente vive e lavora a Riccione. Ha trasformato le sue radici artigianali in un linguaggio estetico unico, dove sartorialità, eccentricità e cultura dialogano con naturalezza.

Il suo stile, che Sorbellini definisce «visionario e iconico», è un equilibrio sofisticato tra rigore sartoriale e teatralità, tra ricerca storica e sperimentazione libera. Ogni capo nasce come oggetto narrativo: non segue la fugacità delle tendenze, ma diventa un pezzo eterno, realizzato con tessuti nobili e costruito con volumi che ne garantiscono la forza nel tempo. La sua boutique Vip Room, a Riccione, è una fucina creativa più che un semplice negozio: un luogo in cui l’esperienza accompagna la vendita e dove le sue collezioni prendono vita grazie anche alla Monikina, musa e interprete dei look più emblematici.

Quali criticità possiamo notare all’inizio della primavera?

«Freddo, sbalzi improvvisi di temperatura e vento insieme a smog e inquinamento dei mesi appena trascorsi potrebbero aver reso vulnerabile la barriera cutanea, provocando secchezza e arrossamenti. Non solo: potrebbero aver causato perdita di elasticità e luminositàoltre che a un ispessimento della cute e al rallentamento del turn-over cellulare. Un clima rigido può inoltre aver provocato il restringimento dei vasi sanguigni superficiali e quindi una minore ossigenazionedei tessuti: quando il ricambio cellulare rallenta, la superficie cutanea diventa opacae più spessa. Il freddo, inoltre, altera il film idrolipidico di superficie, cioè quel velo di sebo che protegge l’epidermide agendo come una vera e propria barriera naturale contro le aggressioni esterne. Così, la pelle ora può apparire più sottile e quindi fragile».

Sorbellini è uno stilista colto, istintivo e profondamente legato alle arti. Nei suoi abiti si percepisce la stratificazione dei viaggi, delle letture, delle icone del passato, filtrate attraverso una sensibilità contemporanea e massimalista. La sua moda è un ponte tra passato e futuro, tra cultura e stile, capace di trasformare ogni creazione in una piccola opera d’arte indossabile. Lo abbiamo incontrato per conoscerlo da vicino.

Quando ha cominciato a capire che le interessava la moda?

Sono cresciuto nella sartoria di famiglia: mia madre e mio nonno lavoravano insieme, e io osservavo tutto, dai cartamodelli ai tessuti arrotolati, fino alle clienti che venivano per le prove. Quell’ambiente aveva un profumo e un’energia particolari che mi facevano sentire nel posto giusto. È lì che ho capito, senza grandi spiegazioni, che la moda sarebbe stata la mia strada 

Ha iniziato il suo percorso apprendendo le tecniche direttamente nell’ambiente familiare?

Sì, tutto è iniziato lì. Ho imparato non solo le tecniche, ma anche un rispetto profondo per il mestiere. Negli anni ’80, un’epoca di rivoluzione nella moda, ho iniziato a studiare seriamente la storia del costume. Rimanevo incantato dai francesi come Gaultier e dagli inglesi come Westwood e Galliano. Quei maestri mi hanno fatto capire che la moda può essere linguaggio, provocazione e identità. Da adolescente avevo già un obiettivo molto chiaro: diventare stilista.

Ha poi frequentato scuole oppure ha seguito un percorso differente?

Ho scelto un percorso atipico. Studiavo economia, ma la moda era un richiamo troppo forte. Ho deciso di trasferirmi a Londra e frequentare la Saint Martins School of Art. Quell’ambiente internazionale mi ha aperto la mente e l’ingresso nell’ufficio stile di Vivienne Westwood è stato un vero privilegio: ho visto da vicino cosa significa trasformare un’idea in un capo che ha un’anima. È lì che ho capito che non avrei più preso altre strade.

Da cosa deriva questa creatività?

Per me la moda è immagine e racconto. Non riesco a fare cose “normali”: un capo deve emozionare, avere una forza estetica, una storia sua. Una camicia bianca è un vestito, non moda. Amo creare pezzi che non appartengano a una sola stagione, ma a una vita. Westwood per me è un faro: la sua libertà creativa, il suo archivio infinito, la sua ironia. In questo periodo sento un flusso creativo continuo, come se fossi in una fase di rinascita.

Quando crea, da cosa trae ispirazione?

Sono un contenitore di esperienze: viaggio molto, fotografo tutto, leggo, osservo persone, dettagli, scene quotidiane. Tutto finisce nella mia memoria. La moda è ciclica, e noi oggi non inventiamo dal nulla: reinterpretano codici già esistenti, ma ciò che conta è la propria impronta. Ogni collezione è un mix di memoria, istinto e cultura visiva.

 

Il suo stile è distintivo e riconoscibile?

Alcuni capi ormai fanno parte del mio linguaggio: tornano sempre perché rappresentano quello che sono. Uso solo tessuti nobili perché voglio creare “oggetti eterni”, non abiti effimeri. Un buon tessuto garantisce qualità e longevità: lo considero la base del mio lavoro. Chi compra un mio capo spesso lo tiene come un pezzo da collezione, e questo per me è un grande complimento. Ho anche un archivio personale enorme: moda che creo, moda che acquisto, pezzi vintage e da passerella. È una fonte inesauribile di idee.

Sta pensando di creare un museo o una fondazione per custodire la sua collezione?

Assolutamente sì. E devo ringraziare anche mia moglie, la Monikina: ha l’abitudine di prendere immediatamente i pezzi unici o i campioni che produco. A volte mi fa arrabbiare, ma poi capisco che sta creando, senza volerlo, un archivio preziosissimo. Molti capi unici, oggi introvabili, sono stati salvati proprio da lei. Saranno il cuore della nostra futura fondazione.

È vero che spesso le aziende influenzano i colori mettendo sul mercato certi tessuti?

Sì, capita. Le grandi aziende anticipano e guidano alcune scelte perché immettono sul mercato determinati colori o materiali in quantità maggiori. Ma resta comunque un processo intuitivo: noi stilisti percepiamo se un colore è “giusto” per il momento. È un dialogo silenzioso tra mercato e creatività.

Ha mai avuto il desiderio di vestire qualche attrice in particolare?

Mi piacciono molto Nicole Kidman e Tilda Swinton, icone di eleganza sofisticata. Anche Angelina Jolie, con il suo stile chic, sarebbe un sogno da vestire. Ma in generale penso che una donna con personalità forte nobiliti qualsiasi abito.

Cosa pensa della frase di Armani sull’intelligenza che conta più dell’abito?

Sono d’accordo con lui: l’eleganza vera è un fatto mentale e di carattere. Però sono rimasto deluso dal suo testamento. Mi sarei aspettato che destinasse la sua enorme eredità a progetti umanitari, come sostenere giovani senza mezzi o bambini in difficoltà. Sarebbe stato un gesto all’altezza della sua grandezza.

www.viproomriccione.com